
13 Apr FOOD DESIGN E INDUSTRIAL DESIGN
Ora è un po’ passato di moda, ma per anni si è parlato molto di food design.
Il fatto che questa tematica non sia più di ampio dibattito è un errore, perché il food design è a tutti gli effetti una disciplina sistematica del progetto che ha ampio spazio e molti campi di azione.
Spinti dall’entusiamo di Expo 2015, il cibo è stato valorizzato in tutti i settori e il design non è stato da meno, tanto che l’Associazione per il Disegno Industriale ha dedicato l’edizione di quell’anno del Compasso d’Oro internazionale proprio alla tematica del cibo.
Ma cos’è realmente il food design?
Partecipando come giudice di alcuni premi, spesso mi capita di leggere descrizioni prodotto che attribuiscono il prodotto a oggetto di “food design”, quando in realtà non lo è.
Se anche chi progetta è convinto di fare food design, ma in realtà sbaglia, direi che possiamo fare un tentativo di chiarezza.
Per capire meglio, basta appellarsi a un documento stilato dalla commissione tematica sul food dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) chiamato Food Design Manifesto.
Lascio qui la definizione ufficiale:
Food Design è la progettazione degli atti alimentari (Food Facts), ovvero l’attività di elaborazione dei processi più efficaci per rendere corretta e gradevole l’azione di esperire una sostanza commestibile in un dato contesto, ambiente o circostanze di consumo. Il Food Design prende in analisi i motivi per i quali compiamo un atto alimentare per meglio comprendere come progettarlo e soddisfare in maniera adeguata l’esigenza dell’utente. Il Food Design si occupa di prodotti edibili, comunicazione, packaging, servizi e luoghi legati alla vendita e al consumo di cibo.
Nel manifesto sono presenti 11 punti che lo descrivono a pieno, consiglio di dare un’occhio, per il link basta cliccare qui.
In buona sostanza si tratta di progettare qualcosa per un’esperienza culinaria specifica e non generica, dove invece interviene l’industrial design.
Porto un paio di esempi per capire meglio.

Questa è una forchetta da tavola, in acciaio, ben disegnata e moderna. La forchetta è uno strumento volto sì al consumo del cibo, ma ha uno standard universale. Quando si progetta la forchetta si danno per assodate delle caratteristiche (manico, denti, dimensioni) che la caratterizzano e di solito il ruolo del designer si esaurisce nel momento in cui ne definisce lo stile, le forme e i materiali.
Questo è un progetto di industrial design.

Il moscardino di Iacchetti e Ragni, che una specie di rivisitazione dello spork, non indaga solo la funzione dell’oggetto di raccogliere (cucchiaio) e di inforcare (forchetta), ma rielabora il rituale. Immaginando lo scenario d’uso e non dando solamente un’interpretazione formale di un oggetto esistente, hanno reinterpretato l’interazione uomo-cibo. Quindi, non limitandosi a dare stile a uno strumento, ma elaborandone l’uso contestualizzato al consumo di cibo in certi momenti e con una ritualità ben definita, hanno fatto food design.
Oltre a definire la ritualità intorno al cibo e il suo consumo, il food design può però dare il meglio intorno alla progettazione dell’alimento come prodotto. Non solo packaging, ma proprio evolvere l’esperienza della forma, sopratutto per il prodotto industriale o seriale.
Il cibo, soprattutto quello di aziende con un centro ricerche molto avanzato, ad esempio Mulino Bianco, ha uno studio della catena di produzione che prevede diversi attori: c’è da badare ai sapori, alle consistenze, la snellezza della produzione, la riduzione degli scarti, l’aspetto finale e molto altro. Questo processo ha dei coordinatori, che armoniosamente definiscono il progetto e lo portano a termine.

Ora se si tratta di una grandissima azienda leader del settore, il processo è innescato da fattori di leadership settoriale. Ma la maggior parte dei produttori elabora nuovi prodotti a partire da istinto e inventiva, alcuni più riusciti, altri meno, senza provare a chiedere una consulenza a un esperto del settore del design.
Capisco che non sia un’associazione immediata quella di “cibo-designer”, per un semplice problema di ruoli e come questi son stati storicamente contestualizzati. Si abbina la figura del designer al prodotto costoso e minimal, e ovviamente non c’è nulla di più sbagliato, ma è comprensibile che chi non sia del settore inquadri la cosa così.
Il design è stato la chiave di successo di alcuni settori che, col tempo, non ne hanno potuto fare a meno. Tralasciando il settore del mobile, l’industria tech, dalle macchine da scrivere Olivetti fino alla Apple, quando ha inserito il designer all’interno del processo, non ha potuto più farne a meno.

Affiancando il progettista a figure chiave come il tecnologo alimentare, il responsabile di produzione ed eventualmente il marketing, si può innescare un processo in cui l’esperienza utente diventi un fattore chiave per la scelta delle texture, delle consistenze, delle forme ed eventualmente anche del gusto.
Anche solo per la ricerca, questo può essere uno spunto. Puntare a sviluppare un prodotto ad alto rischio commerciale, può anche non entrare nella distribuzione, ma può stimolare riflessioni e accordimenti produttivi per il miglioramento di tutto il parco prodotti e magari creare un prototto innovativo.
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